4 novembre 2016: a qualche cultore della Grande Guerra ’15-’18 cominceranno a venire i brividi.
Peccato che a festeggiare i cento anni della disfatta di Caporetto (l’anno prossimo) e poi quelli della vittoria delle vittorie, ottenuta, nomen omen, a Vittorio Veneto, non sia rimasto neanche uno dei giovanotti che in quei giorni ruggenti furono protagonisti, da militi intrepidi. I nostri centenari sono i bambini che nascevano proprio in quegli anni: troppo piccoli per avere una memoria, diretta. Che emozione, però, a pensarci: siamo a due anni esatti – due anni esatti! – dal centenario di Vittorio Veneto, la vittoria sugli austro-tedeschi che permise all’Italia di concludere il conflitto – quella fu la battaglia decisiva – da nazione vincitrice, e soprattutto di terminare il processo risorgimentale unificazione nazionale (con l’annessione del Trentino e del Friuli). 4 novembre: una data di festa che però non è festa per il calendario lavorativo, condannata al semi-anonimato dalla sua vicinanza con Ognissanti e il giorno della commemorazione dei defunti, eppure riuscita a passare indenne dalla retorica trionfalistica di età fascista alla riflessione più sommessa, razionale e sofferta di età repubblicana. E che, inalterata nel suo significato storico, si presenta all’appuntamento dei suoi primi cento anni. Anche se, e in verità sin da quando è stata istituita, cioè nel 1919, essa non celebra soltanto la vittoria di Vittorio Veneto in sé, ma le forze armate italiane in generale. Tanto che le caserme vengono aperte al pubblico, come fossero musei.
Di sicuro, in prossimità di una ricorrenza così solenne, che cosa non darebbe uno storico per vedere tra le autorità schierate in pompa magna all’Altare della Patria, per le celebrazioni di rito, proprio lui, l’Armando. Armando Diaz, il pacioso generale napoletano che riuscì a risollevare il morale delle italiche truppe dopo la disfatta massima del 24 ottobre 1917, culmine di una tensione sempre più insostenibile tra Luigi Cadorna, il comandante in capo preparatissimo ma draconiano e inaccessibile, e i generali suoi sottoposti. In realtà il buon Diaz, spentosi il 29 febbraio 1928 da senatore del Regno d’Italia, fece in tempo a partecipare alle prime nove edizioni di tale giornata di commemorazione, sempre più carico di onori (e dal ’22 al ’24 anche in qualità di ministro della Guerra, ruolo antesignano dell’attuale ministro della Difesa): ma possiamo ben immaginare quanto relativo entusiasmo quei cerimoniali potessero provocare in lui, uomo d’armi votato all’azione e per di più protagonista in prima linea dei fatti oggetto di tante interpretazioni e indebite appropriazioni. Lui, insomma, in fondo sarebbe stato più felice di combattere altre cento Vittorio Veneto; fossero pure gli altri, invece, e ancor più le generazioni successive, a perpetuare il mito dell’unica Vittorio Veneto realmente combattuta.
E anche quest’anno, con cerimonia iniziata alle 10.00 di stamani, il mito si è regolarmente perpetuato all’Altare della Patria a Roma. Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, accompagnato dal ministro della Difesa, Roberta Pinotti, e dal capo di Stato maggiore della Difesa, generale Claudio Graziano, ha reso omaggio ai Caduti della I guerra mondiale deponendo la rituale corona d’alloro ai piedi della tomba del Milite Ignoto, appena dopo l’esecuzione dell’inno nazionale. Più di mille uomini e donne delle Forze armate e dei Corpi armati, inclusi militari dei reparti a cavallo, hanno fatto bella mostra di sé in piazza Venezia, mentre, come da tradizione, le Frecce tricolori coloravano il cielo di verde, bianco e rosso. A concludere la cerimonia l’atterraggio di due paracadutisti dell’Esercito: uno di essi portava con sé una grande bandiera italiana, che poi è stata distesa sulla piazza, proprio di fronte all’Altare.
Il 4 novembre rappresenta una sorta di primo tempo di quella grande festa della coscienza nazionale che comprende anche il 25 aprile e il 2 giugno: di questi tre momenti, però, è certamente quello che ha perso più attualità nel dibattito ideologico e, quindi, anche politico. Sarà che è percepito come qualcosa che riguarda un passato di gloria lontano nel tempo, troppo lontano, mentre il 25 aprile e il 2 giugno, per forza di cose, sono storicamente congiunti. Eppure è persino inutile osservare che non ci sarebbero stati né un 25 aprile di liberazione né un 2 giugno di rinnovamento se, in un tempo lontano, non ci fosse stata la premessa di quel 4 novembre di riscatto.